Le migliori vestite al Met Gala non erano quelle in Comme des Garçons

Sono giorni che leggo continuamente articoli sulle migliori vestite al MET Gala e sono arrivata a un punto tale di rodimento interiore che ho deciso di scriverne al riguardo. Questo perché si sentono tutti grandi esperti di moda, pronti a giudicare gli altri, quando ogni tanto mi sembra che aprano la bocca giusto per farle prendere aria, non perché abbiano sviluppato un pensiero serio e costruito da esplicitare.

Partiamo dal principio, quest’anno, come ogni anno, il tema del Met Gala era lo stesso tema della mostra temporanea che ospiterà il Met dopo l’evento, per la precisione: Rei Kawakubo / Comme des Garçons: Art of the In-Between. A questo proposito voglio proprio iniziare con una citazione di Rei Kawakubo per commentare questo tema:

“It’s a Met show for Comme de Garçons, not a Comme de Garçons show at Met”.

Pertanto partendo proprio da questo commento di Rei Kawakubo mi viene oggettivamente in mente di dire che coloro che quest’anno hanno scelto di vestirsi Comme de Garçons al Met Gala o pensavano di andare a una sfilata di Rei Kawakubo o non hanno capito il tema, o peggio ancora: hanno scelto la via più semplice, quella che non li ha fatti pensare. Personalmente mi sono immaginata proprio la scena di Rihanna che apre la sua busta d’invito e mentre legge dice:”La mostra è su Rei Kawakubo, mi vesto Comme des Garçons e ho risolto”, mentre pensavo a tutto questo l’immagine che mi è venuta in mente è:

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È un po’ come se vi invitassero a una festa a tema Woody Allen e vi vestite da Woody Allen, non è che sia proprio sbagliato ma è banale, è scontato, non è affatto pensato, né tanto meno sofisticato.

Quest’anno, secondo me, i migliori abiti del Met Gala sono stati di coloro che hanno fatto uno sforzo per capire Rei Kawakubo, cercando di entrare nel suo modo di pensare, di vedere la moda e di vedere il mondo. Insomma, le migliori vestite sono quelle che hanno veramente fatto un omaggio a lei, rispettando il tema scelto dalla nostra amica Anna.

E cosa pensa Rei Kawakubo del mondo e della moda?

“I make clothes for a woman who is not swayed by what her husband thinks”.

“I don’t feel too excited about fashion today. People just want cheap fast clothes and are happy to look like everyone else” 

“My point of departure is always abstract and multileveled.”

“The more people hate it, maybe the newer it is. Because the fundamental human problem is that people are afraid of change. “

“Black isn’t just a color, it’s an entire palette.”

“I identified very much with punk, not only in the fashion sector, but in every other sector.”

“The meaning is that there is no meaning.”

E via così, ci sarebbero un milione di altre citazioni sue da inserire in cui lei spiega come per esempio ha rinunciato alla silhouette classica degli abiti per cercare forme nuove, senza però mai rinunciare alla femminilità della donna che indossa le sue creazioni, perché la cara Rei è una grande femminista e il suo scopo era uscire fuori dagli schemi senza però mai svilire o non potenziare la figura della donna.

 Vediamo quindi qualche esempio di star che ha deciso di ragionare seriamente a tutto questo e ha fatto una scelta non solo bella ma in stile “Rei”.

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Di altri esempi così ce ne sarebbero un’altra decina, di base comunque è questo lo spirito che ho apprezzato di più: chi ha preso spunto dalla stilista, chi si è ispirato ma poi ha rielaborato da sé con gli stilisti che più gli piacevano, anche perché penso che in realtà questo approccio sia molto di più nello spirito Rei Kawakubo di quei 4 che si sono messi un suo vestito e si sono “ripuliti così la coscienza” totalmente senza sforzo.

Ho pianto per l’Arte perduta

Sono stata al MoMA di New York e ho pianto. No, questa volta non ho pianto per la sindrome di Stendhal che ogni volta che visito un museo mi coglie. Questa volta ho pianto per la sconsideratezza, per l’ignoranza, per il degrado della nostra società.

Ho pianto per il silenzio che non c’era, ho pianto per gli schiamazzi, le urla, la mancanza di rispetto. Ho pianto per tutte quelle mani che toccavano i quadri esposti senza il minimo ritegno, ho pianto per i bambini se si sedevano sulle sculture, ho pianto per le madri che non dicevano nulla perché “beh, tanto quella schifezza non può essere certo considerata arte”.

Ho pianto amaramente nel constatare la calca che c’era davanti a La notte stellata di Van Gogh e nemmeno una persona davanti a Il Postino.

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Ho pianto rendendomi conto che tutta l’ala dedicata a Boccioni venisse saltata a piè pari dalla gente come se fosse l’ultimo degli stronzi. Ho pianto per Forme Uniche della continuità nello spazio, che era lì al centro della stanza a fissare le schiene delle persone.

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Ho pianto per Kirchner, perché la sua ricerca di uno stile che potesse aiutarlo esprimere chi era non è stata nemmeno considerata di sfuggita.

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Ho piano per Mondrian e Rothko che, mentre tutti accorrevano numerosi a farsi i selfie con il ritratto di Frida Kahlo e Les demoiselles d’Avignon, da soli fissavano i pavimenti di stanze vuote.

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Ho pianto per Roy Lichtenstein, dimenticato in un angolo davanti a un ascensore, con nessuno che si lasciava esplodere il cuore dall’emozione per la sua immensa bravura ed espressività.

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Ho pianto fino ad avere il cuore spezzato. Ho pianto fino a desiderare di chiudere i musei al pubblico e decidere di fare una selezione all’ingresso per permettere soltanto a chi ama l’arte, ai conoscitori, a chi ha voglia di imparare, di vedere la realtà da un’altra prospettiva, a chi ha voglia di sognare, a chi ha voglia di farsi domande, a chi ha voglia di mettersi in gioco veramente per 2 ore, venisse permesso di entrare ai musei.

La fiducia

Fiducia
fi·dù·cia/

(sost. Femm.)

[dal lat. fiducia, der. di fidĕre «fidare, confidare»] (pl., raro, –cie)

  1. Attribuzione di potenzialità conformi ai propri desideri, sostanzialmente motivata da una vera o presunta affinità elettiva o da uno sperimentato margine di garanzia: aver f. in una persona
  2. Ottimistica aspettativa riguardo al futuro.
  3. Persona di fiducia, ritenuta adatta all’adempimento di compiti delicati o importanti.
  4. Posto, impiego, incarico di fiducia, di particolare delicatezza e responsabilità.
  5. Sentimento di sicurezza che deriva dal confidare in qualcuno o in qualcosa [+ in]: fiducia piena, incondizionata, assoluta; avere fiducia in un amico.

 

Ho passato il 40% della mi attuale esistenza a scuola, frequentando lezioni di ogni sorta: matematica, storia, italiano, linguistica, diritto, interpretariato, traduzione, storia dell’arte, greco, latino… Eppure nessuna lezione ancora mi ha mai insegnato come si faccia a capire di quali persone ci si può fidare e di quali no.

Ho studiato per lo più tutta la mia vita le lingue perché sono affascinata dalle parole più di ogni altra cosa. E forse proprio questo mi ha fregata sempre: che io alle parole ci credo, profondamente. Credo al loro peso, al loro valore, al loro significato, alle loro sfumature. Perché come dice Carlo Levi “le parole sono pietre”.

Quello che mi scordo sempre invece è che la gente considera le parole come la giornalista che intervista Nanni Moretti in Palombella Rossa: niente.

Attribuzione di potenzialità conformi ai propri desideri, sostanzialmente motivata da una vera o presunta affinità elettiva. 

Persona di fiducia, ritenuta adatta all’adempimento di compiti delicati o importanti.

 Sentimento di sicurezza che deriva dal confidare in qualcuno.

 

Eccomi qua. Fregata di nuovo. Anche stavolta. Dalla sconsideratezza della gente che non sa nemmeno quello che dice.

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La questione “chiodo giallo” mi fa inorridire

È scoppiato ormai da qualche tempo un immenso shit-storm intorno alla questione “chiodo giallo di Zara”. Se inizialmente avevo compreso il dissenso nei confronti di questo capospalla – non tanto per il modello, che è un grande classico, quanto per il colore – oggi mi sono trovata a dissociarmi completamente da tutta la questione. Questo perché è sacrosanto esprimere la propria opinione personale, positiva o negativa che sia, nei confronti di qualsiasi cosa; ma quando l’opinione personale si tramuta in una vera operazione di cyberbullismo con tanto di gogna pubblica che si concretizza nella creazione di un sito nel quale vengono postate foto fatte di nascosto nei mezzi pubblici alle ragazze che hanno acquistato questo capo, senza nemmeno che venga blurrato a loro il volto (cosa per altro perseguibile penalmente) allora no, non sono più d’accordo e mi dissocio da tutto quello che succede.

Quello su cui mi sono ritrovata a pensare questi giorni è proprio questa rabbia e potenza di commenti negativi nei confronti di queste poverette che hanno comprato questo giacchetto. Ma coloro che insultano continuativamente e con tanta veemenza queste ragazze cosa hanno in più o di meglio per poterlo fare? Quello che ho notato, infatti, è che la maggior parte di questi insulti reiterati vengono da persone normalissime, che non sono poi così tanto diverse e “più alla moda” di quelle che si sono comprate il giacchetto giallo. Considerando infatti che due delle stylist più importanti americane (di NYC e LA) hanno consigliato questo chiodo senape di Zara come uno dei pochi must-have di stagione voglio credere che non sia una questione di “persone fashion” vs “persone non fashion”.

Andando più a fondo, difatti, si scopre che la questione non è relativa tanto all’ “essere alla moda” quanto “se scegli questo giacchetto sei una sfigata, senza stile e gusto”. Qual è dunque questo grande stile che le ragazze che non acquistano il chiodo giallo posseggono? Per la verità a me sembra che differenza non ce ne sia. Semplicemente perché la maggior parte degli insulti che ho letto mi sembrano provenienti da persone che comprano comunque da Zara e non hanno quindi uno stile differente e tanto più personale da quel milione e passa di persone che comprano quotidianamente da questa catena spagnola che ha regalato alle masse l’illusione di essere “fashion” solo per il fatto che copia il suo abbigliamento dalle linee delle grandi griffe. Pertanto cosa differenzia una ragazza che ha comprato un chiodo giallo di Zara quest’anno da una che ha comprato un giacchetto a frange di Zara la scorsa stagione?

La verità è che quello che mi rende più triste di tutta questa storia non è nemmeno tanto l’aspetto “stile”, per il quale, per altro, io trovo assurdo insultare qualcuno a prescindere dato che è una delle cose più personali che esistano. Solo per il fatto che il nostro stile nel vestire sia diverso da quello di altri non significa che sia migliore. Per dirla con le parole della grandissima icona Iris Apfel: “Non ci sono mappe né regole per lo stile. Si tratta di saper esprimere te stessa”. Io ho un milione di borse, scarpe, vestiti che sono pieni di paillettes, stampe olografiche, stoffe oro e argento e non pretendo certo che tutta la gente che vedo se le metta, ma se questo modo di vestire è quello che a me piace, che mi fa meglio esprimere me stessa e mi fa stare bene perché debbo rinunciarci solo perché la cultura del paese nel quale vivo ora non lo accetta come “normalità” o buon gusto? Perché devo mettere alla gogna una poveretta che ha semplicemente comprato un chiodo che le piaceva e la faceva stare bene con se stessa?

La cosa che mi rende più triste di questa faccenda infatti è la “bestialità” umana con cui si è affrontato tutto ciò, lo scarso rispetto per la libertà altrui e soprattutto l’altissimo accanimento delle donne contro altre donne. Le stesse donne che si proclamano grandi femministe e indignate per le ingiustizie verso il loro genere invece oggi sono pronte a darsi fuoco a vicenda per uno stupido giacchetto fatto in Cina da qualche bambino, solo perché per alcune non è un “trend giusto” da seguire.

Ma la cosa che mi fa ancor più rabbrividire è che tutto questo dimostra il motivo per cui siamo un Paese così arretrato quando si parla di uguaglianza, uguali diritti, rispetto per l’opinione altrui senza giudizi o imposizioni. Perché se non riusciamo nemmeno ad accettare che qualcuno possa comprare una giacca diversa dai nostri gusti personali come possiamo accettare chi fa scelte di vita diverse dalle nostre? Come possiamo accettare il trono gay di Maria De Filippi con serenità o le unioni civili come un passettino avanti per la nostra società se non riusciamo a rispettare nemmeno chi acquista un vestito diverso dai nostri?

Lo Stato Sociale in una canzone canta: “mi sono rotto il cazzo che non sono d’accordo con te, ma morirei affinché tu possa dire la tua stronzata”. Ecco, mi piace sperare che un giorno arriveremo a questo: a un paese in cui quelle che non si comprerebbero MAI il chiodo giallo di Zara difendessero quelle che se lo comprano, non tanto perché “è l’acquisto giusto da fare”, quanto perché chi lo desidera possa avere la libertà di poterlo comprare, senza la paura del giudizio altrui.

 

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Quando crescere fa schifo..

Vuoi una pizza o un kebab? Torni turchina o ti fai castana? Vuoi uscire o rimanere a casa?Quel ragazzo ti piace o non ti piace? Vuoi il vino o un long island?

Decisioni. La vita un continuo susseguirsi di decisioni. Il problema arriva quando si presentano davanti a noi delle decisioni più grosse di quanto credessimo, decisioni che non interessano più soltanto noi ma il nostro futuro, le nostre speranze e tutto quello che potremmo diventare. Certe decisioni pesano come macigni immensi e finiscono per farti sentire proprio come Sisifo, condannato da Zeus per l’eternità a spingere un masso immenso in cima a un monte, tuttavia ogni qual volta Sisifo raggiungesse la cima col suo macigno quest’ultimo rotolava in fondo al monte e quel poveretto doveva riniziare ogni volta da zero. Le decisioni della mia vita funzionano sempre così, ogni volta che ne prendo una enorme e riesco a portare il macigno in cima al cucuzzolo, questo ricade in basso e devo iniziare tutto da capo.

In momenti come questi mi trovo a desiderare di essere di nuovo bambina, quando le decisioni non eri tu a prenderle ma qualcun altro le prendeva per te e se qualcosa andava male potevi prendertela con quel qualcuno, perché lui aveva deciso, non tu. “Che palle, non volevo andare in questa scuola, ma mamma mi ha costretto, quindi la odierò perché non faccio quello che vorrei”, è una condizione di sicurezza estrema, perché non sei costretto a prenderti mai le responsabilità delle situazioni hai di fronte. Ma poi si cresce, si diventa grandi, si va a vivere da soli, si inizia a costruirsi il proprio percorso e nessuno sceglie più per te. Questa volta  nessuno deciderà cosa io debba fare, ci siamo solo io e il mio macigno bello grosso, che è caduto in fondo alla montagna e non riesco più a capire che strada prendere per portarlo di nuovo in alto. Quindi chiamo mio padre, l’unico che sa, che mi conosce per davvero, e gli vomito al telefono un fiume di parole, gli vomito l’amarezza, il mio dolore e tutta la rabbia. Sì, anche la rabbia, perché quando ottieni qualcosa che volevi da morire ma poi ti rendi conto che quel qualcosa non ti farà del bene anzi forse ti distruggerà e ti rendi conto anche che è assolutamente quello di cui non hai bisogno in quel momento, ti arrabbi, stai male, perché è come se stessero strappando un pezzetto del tuo cuore, delle tue passioni, delle tue speranze. E inevitabilmente in questi momenti entri nei loop dei rimpianti “se avessi fatto, se avessi detto, avrei dovuto”, mio padre ascolta tutto e non dice nulla fino a quel momento, in quell’istante mi interrompe di botto e mi dice:

“No, questo no. Iniziare a vivere dicendosi continuamente “se avessi fatto, se avessi detto” ti distruggerà perché non ne usciresti più. Le decisioni che tutti prendiamo non sono mai sbagliate quando le prendiamo, perché nel momento stesso in cui scegliamo di fare qualcosa è perché crediamo che sia la scelta più adatta per noi, quella buona. Dunque non hai nulla da rimpiangere. Hai preso tante di quelle decisioni da sola che neanche te ne rendi conto e non c’è mai stato nulla di sbagliato, perché la verità è che ormai sei grande e solo tu sai che cosa è meglio per te. Solo Teresa sa cosa sente, cosa gli capita, quello che pensa e se ci pensi bene ti renderai conto che tu sai già perfettamente cosa fare; e sarà la scelta giusta.”

E poi il silenzio, il nodo in gola, perché improvvisamente io so cosa fare e so che mi farà soffrire. Ma del resto come cantano i Coldplay “When you get what you want but not what you need” è sempre un po’ un morire dentro. Quindi con l’amaro in bocca trattengo le lacrime, stringo i pugni e penso alla canzone de Lo Stato Sociale: “passerà col tempo, passerà il momento”.

 

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Nel vocabolario che vorrei…

In questi giorni la parola petaloso è riuscita a farci ammalare tutti di orchite nel giro di 24 ore scarse. Ma a prescindere da questo piccolo dettaglio abbastanza seccante – che per altro è una considerazione del tutto personale – ho riflettuto molto sul fatto che per fare qualcosa di bello per un bimbo forse si riuscirà ad aggiungere una parola nuova al vocabolario di italiano. Ma la parola “petaloso” è veramente quello di cui abbiamo bisogno? Per carità, lungi da me l’essere contro questa piccola battaglia del piccolo Matteo, ma personalmente credo che prima di petaloso avremmo bisogno che altre parole di uso quotidiano venissero riconosciute e integrate nel vocabolario della lingua italiana. Propongo alcuni esempi:

STALKERARE (v. trans) – Verbo di largo uso colloquiale che indica l’azione/necessità impellente, talvolta reiterata e continua, del controllare gli aggiornamenti e le azioni di un determinato soggetto nei suoi profili social ai fini di conoscere quanto più possibile la vita e i dettagli del soggetto in questione; nei casi di particolare acutezza si giunge a conoscere alla perfezione altresì i dettagli personali della vita degli avi del soggetto.

Esempio:
1. “
Ieri sera ho stalkerato Andrea tutta la notte, ho scoperto che sua cugina Sonia si è lasciata con il ragazzo dopo 3 anni”.
2. “Oggi pomeriggio ho stalkerato il profilo Instagram di Anna e sono arrivato a vedere le foto di 210 settimane fa”.

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FOTTESEGA (pop. Volgare, interiezione) – Neologismo della lingua italiana per lo più di uso colloquiale e volgare utilizzato come sinonimo dell’espressione “non me ne può fregare di meno”, “non me ne importa nulla”.

Esempio:

1.– “Guarda che le patatine ti fanno ingrassare!”
– “Fottesega!”

2. – “Giulio ha visualizzato il tuo messaggio e non ha risposto”
– “Fottesega, peggio per lui”.

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CIBORGASMO (n. m.) – Sostantivo che descrive la sensazione oltremodo piacevole che si prova quando si ingerisce del cibo particolarmente gradito alle papille gustative.

Esempio: Ieri ho mangiato una pizzo così buona che ho avuto un ciborgasmo.

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PISELLABILE (agg. Volgare) – Aggettivo qualificativo che indica la volontà di volersi concedere fisicamente, anche reiterate volte, a un determinato soggetto.

Esempio: Claudia è proprio una ragazza pisellabile.

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NOINA (n. f. Derivato di noia) – Sentimento improvviso e inspiegabile di voler infastidire le persone che ci circondano per nessuna ragione identificata.

Esempio: C’ho un po’ di noina, ti darò tanti buffetti sulla guancia.

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TETTABBRACCIO (n. m.) – Neologismo della lingua italiana che indica l’atto di abbracciare una donna particolarmente formosa e trarre piacere e conforto dall’essere abbracciato anche dalle forme di costei.

Esempio: Oggi sono un po’ triste. Paola potresti darmi un tettabbraccio?

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(Quest’ultimo termine è stato creato interamente da A. F.)

 

DEFILIPPIANO (agg.) – Aggettivo qualificativo che descrive qualsiasi cosa rimandi al trash televisivo italiano per eccellenza, creato dalla Unica, Sola, Immensa Maria De Filippi.

Esempio: Il film che ho visto ieri sera era propo defilippiano.

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E per ultima, ma non in ordine di importanza, una vera parola che nel nostro secolo è un vero ever green:

INCAZZAPPATO (agg. volgare, colloquiale) – Aggettivo che descrive lo stato di forte fastidio che prova un un soggetto causato dalla lettura senza una risposta di un messaggio inviato a un soggetto terzo tramite un’applicazione telefonica di messaggistica istantenea.

Esempio: Sono incazzappato nero perché Giorgio ha visualizzato il mio messaggio ma non ha risposto.

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Essere single non è una malattia

Ieri sera sono andata a vedere Single ma non troppo, questo non solo perché amo alla follia Rebel Wilson e sono una malata cronica di film stupidi ma perché per una volta pensavo che finalmente avrebbero fatto un film decente sull’essere single che non implicasse per forza la favola del vero amore che ci propina l’industria del cinema da decenni.

Insomma, dopo aver visto il trailer io pensavo che questa volta finalmente avrebbero mostrato nel grande schermo che se sei donna e sei single non sei una zitellona disperata, con crisi isteriche continue da matrimonio e/o bambini che non vede l’ora di incontrare un uomo per incatenarlo come Ercole al Caucaso. Questa volta ero convinta che finalmente avrebbero mostrato che nonostante le credenze popolari essere single non vuol dire “essere soli”, che non tutte hanno la smania di avere un rapporto decennale con in programma 13 bimbi e una villetta ma che in realtà si fanno un sacco di cose fighissime per un solo semplice motivo: si è liberi. E quest’ultimo punto chiaramente spaventa da un lato ma dall’altro è una cosa stupenda perché ti permette di fare una quantità di cose che altrimenti non potresti fare. Puoi limonarti un tizio vestito da Village People nel bagno di un locale e farti pure beccare perché non succede assolutamente nulla, perché la sera che sei triste e pensi che la tua vita sia una merda c’è sempre un’amica da chiamare che verrà da te con una bottiglia di vino e mille repliche di Sex & The City, perché ci sarà sempre quel gruppo su Telegram con cui condividere l’odio verso il genere umano che ti farà sempre sentire meglio, perché avrai i tuoi amici gay che ti porteranno a fare shopping e come consiglio costante per ogni serata a cui andrai ti diranno: “è il caso che tu ti vesta un po’ da zoccola, tesoro”, e ci sarà sempre quell’amica con cui esci insieme e che, a ogni serata, appena sparisci un minuto anche solo per andare a fare pipì ti scriverà: “zozzaaaa, stai già a scopà?! BRAVAAAA”. E invece niente, il film si è rivelato un enorme delusione, proprio come La verità è che non gli piaci abbastanza; entrambi i film partono benissimo, con dei presupposti davvero buoni e reali che se tutti seguissero forse vivremmo meglio, ma poi ecco che tutto si rovina nel finale. Tutti grandi amori, grandi dichiarazioni, il fregno epico scapolottone che si fidanza con la sfigata-stalker-rompi-coglioni – che poi diciamoci la verità nella realtà NON SUCCEDE E NON SUCCEDERà MAI. Perché se sei una maledetta pazza invasata, quel gran fregno di barista a cui hai lasciato il numero e con cui magari ti senti non solo non si innamorerà di te, ma probabilmente si rivelerà un fedifrago fidanzato da anni che per altro è un mezzo spostato mentale.

Quello che invece per una volta speravo passasse è una filosofia di vita che mi insegnò anni fa la mia amica Jessica del New Jersey, la quale la prima volta che venne in Italia mi disse: “è assurda la concezione che avete voi donne qui in Italia dei rapporti e dell’amore. Quando qualcuna di voi diventa single qui in Italia iniziate tutte a piangere, a essere tristi e a pensare che sia la fine del mondo. In America quando diventiamo single la prima reazione che si ha dalle amiche è: FUCK YEAH! LET’S PARTY!”. Io da quel giorno mi sono sempre circondata di persone che vivevano la vita con questo spirito, perché le donne che la pensano così sono quelle che non hanno bisogno di un uomo per forza per sentirsi complete e felici, sono quelle che hanno due palle grosse come una casa e sono capaci di farvi vivere la vita in modo meravigliosamente pieno e questo non vuol dire che l’amore ci fa schifo o che l’amore non ci interessa, semplicemente lo viviamo con serenità, perché come dice mia nonna: “c’hai un sacco de tempo per vive la vita insieme a qualcuno, non vedo perché angosciasse adesso. Divertite!”.

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La musica, per sempre

Ho visto Whiplash per la prima volta poco tempo fa, lo so che è un film uscito ormai da parecchio ma avevo letto tante recensioni e non mi sentivo pronta a guardarlo perché le storie dei musicisti mi toccano sempre tanto e infatti questa non ha fatto eccezione. La cosa più bella della musica è in assoluto quello che trasmette ma è anche vero che bisogna dedicarci anima, cuore e tantissime forze per poterne fare. Questo film mi ha toccato perché mi ha riportato alla mente tanti di quei ricordi che pensavo quasi di scoppiare e sono gli stessi ricordi che col tempo cerchi di non portare mai a galla perché quando rinunci a qualcosa per sempre è poi sempre difficile e doloroso doverci tornare a fare i conti.

Sono 9 anni che non tocco nemmeno per sbaglio il tasto di un pianoforte, perché dal giorno che ho chiuso il mio ho deciso che non ne avrei più toccati altri. Ho iniziato a prendere lezioni di musica quando avevo 7 anni e questo lo devo solo alla mia maestra di scuole elementari che supplicò mia madre di farmi suonare uno strumento. Lei disse ai miei genitori che avevo un talento da curare e che non potevano rimanere ciechi di fronte al mio amore per la musica. Così iniziai col pianoforte, in realtà all’inizio era una pianola ma poi diventò un pianoforte a muro in legno chiaro.Ricordo i pomeriggi caldi in cui tutti giocavano fuori nel cortile e gridavano mentre io ero dentro una classe con un pianoforte nero laccato e un’insegnante dolcissima. Col tempo partirono le lezioni serie, gli spartiti seri, l’insegnante professionista e l’esercizio intenso. Ricordo le ore passate sopra quei tasti come se fosse ieri, in particolare in inverno; sapete se suonate pianoforte per molte ore consecutive in inverno accade sempre una cosa stranissima: il vostro corpo intero si surriscalda mentre le mani, che poi all’atto pratico sono quelle che si muovono di più, pian piano si ghiacciano in modo impressionante fino a non riuscire quasi a muoverle e quindi l’unica cosa da fare è immergerle in acqua bollente per almeno 30 secondi – così diceva il mio insegnante. Se chiudo gli occhi ancora le sento pulsare e bruciare fortissimo mentre tremano sotto l’acqua.

Ricordo l’odio intenso per Bach, perché quanto cazzo ti fa penare la sua musica con la mano sinistra nemmeno vi immaginate e io che non sono mancina ho sempre risentito lo sforzo. Poi ci fu la stagione degli amori e la mia cotta musicale era tutta per Schumann; lui non componeva pezzi, lui raccontava storie con la musica e non so perché ma ai tempi mi coinvolgeva tanto suonare cose sue. E infine il grande amore, ogni musicista ne ha uno, quello per cui quando ha iniziato ha detto: “io un giorno voglio suonare quello che ha composto lui e per questo studierò”, il mio amore si chiamava Wolfgang Amadeus Mozart. Io volevo studiare per suonare lui, perché mi sentivo piena con la sua musica e della sua musica per qualche ignota ragione. Ci fu un Natale che mi regalarono una raccolta di 36 variazioni di una sua melodia e io provavo a impararne e perfezionarne un pezzetto al giorno perché mi rendeva felice. Ricordo che quell’anno insieme a quegli spartiti di Mozart mia madre mi regalò un copri-tastiera per il piano con sopra ricamato: “A Teresa, la musica per *disegno di due farfalle*”, pare che il significato simbolico delle due farfalle sia l’eternità, dunque c’era scritto: A Teresa, la musica per sempre.

Non ricordo esattamente il giorno in cui decisi di smettere, ma ricordo che un mese dopo che non suonavo più mi iscrissi al coro della scuola e ci feci 3 anni di magnifiche tournée, l’anno successivo imparai da sola a suonare la chitarra e quest’anno mi sono fatta regalare un ukulele che spero imparerò presto a suonare.

Il mio insegnante di pianoforte mi ha scritto poco tempo fa per dirmi che ero una delle ragazzine più talentuose a cui ha insegnato e si dispiaceva – come del resto mia madre – per avermi vista abbandonare e sprecare quella che forse sarebbe potuta essere per me una grande risorsa. Io non lo so se ho fatto una cazzata, se potevo diventare una di quelle donne con le palle quadrate che fanno concerti epici in teatri super-fighi o se magari sarei solo finita a insegnare a suonare il triangolo al dopo scuola, so però che aver smesso di suonare quello strumento e smettere di pensare al conservatorio e allo studio rigido mi ha permesso di scoprire la cosa più grande: la musica, quella di cui mi ero innamorata da bambina. Non mi pento della decisione che ho preso perché so che quello che volevo è non iniziare a odiare la cosa che in realtà amavo di più, non volevo finire per essere un’insegnate di musica frustrata che non si emoziona più per Chopin e pensa solo a contare ad alta voce i tempi in 6/8, io volevo stare vicino alla musica a modo mio, in piena libertà e a oggi posso dire che è stata una delle migliori scelte che abbia mai fatto, perché in realtà grazie a questo ho capito che non conta che strumento suonerò, se so cosa sono “fa do sol re la mi si” o quali siano i vantaggi dell’avere un orecchio assoluto, quello che conta è che la musica sarà con me, per sempre, e sarà sempre l’unica cosa che continuerà a darmi sollievo qualunque cosa accadrà.

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Questione di altezza

Il mio forte non è mai stata la statura. Fin da piccola è sempre stato il mio punto debole. Ricordo che la prima cosa che nonno costruì per me fu uno scalino di legno, il mio scalino di legno, un piccolo oggetto che io potevo portare in giro per casa a mio totale piacimento per fare tutte le cose che volevo senza sentirmi in difetto. Questo mio “piccolo” problema si fece molto palese quando ero veramente piccola e arrivava il periodo natalizio. Madre racconta sempre che non si riusciva a spiegare perché non calcolassi minimamente il presepe gigante che lei aveva accuratamente costruito a casa e che di solito è una di quelle attrazioni fantastiche da cui tutti i bimbi sono ammaliati. Ma a me non me ne fregava nulla. La cosa passò per qualche tempo inosservata fino a quando non capirono che a me del presepe non fregava una mazza per un semplice motivo: io non lo vedevo. La cassapanca su cui l’aveva costruito mamma – sebbene bassa – era troppo alta per me, dunque io vedevo solo legno e del presepe me ne sbattevo alla grande. Fu proprio lì che madre decise di fare un presepe dentro il tavolino di vetro del salotto, di quelli bassi posa riviste, e lì per la prima volta rimasi attonita davanti a quello spettacolo. Tutti i bimbi amano i presepi per i pupazzi, perché è come avere un enorme villaggio di giochi fighissimo già costruito dai grandi e fu lo stesso per me. Ma io non ero una bambina normale, mai lo sono stata. A 11 mesi ero già logorroica come Piero Angela ed ero già una stronzetta dalla lingua biforcuta come il principino George nei meme di “il principino che disprezza la gente” – o comunque si chiami quella pagina. Io vengo da una famiglia super fan di Cristo, ergo la storia del bimbo Gesù mi era molto chiara già ai tempi, pare però che il fatto che il nostro Re fosse un “poraccio” non andasse tanto giù alla piccola Terry bambina, che passava le giornate a giocare con i pezzi del presepe insultando i poveri Giuseppe e Maria. In particolare il presepe in questione aveva un pupazzo di San Giuseppe che teneva un asino su cui sedeva Maria incinta ed erano posizionati davanti a un albergo da cui spuntava un personaggio che simbolicamente gridava loro di andar via. Storica tra i miei familiari fu la mia personificazione di quell’albergatore, durante uno dei miei giochi, in cui iniziai a urlare a San Giuseppe e la Madonna: “annatevene via che non c’avete manco ‘na 500!”.

Quest’anno il presepe non l’ho fatto, perché a casa non c’è spazio ma soprattutto perché da quando vivo da sola sono diventata come il poro San Giuseppe con quell’asino al cappio: senza manco una lira per piange. Il punto è che nonostante sia leggermente cresciuta di statura, quest’anno mi sento piccola come quando non riuscivo a vedere il presepe e me ne infischiavo di tutto. Quest’anno per la prima volta vedo tanti affannarsi per il Natale e io mi sento come in una grande bolla di vetro tutta intenta a fare altro e impossibilitata a unirsi al mondo circostante. Quest’anno non sono contenta di tornare a casa, di rivedere i miei parenti, di mangiare del torrone, quest’anno non riesco a essere davvero felice nel mio periodo preferito dell’anno e questo un po’ mi spezza il cuore. Non sono pessimista per natura, non smetterò di credere che il Natale sia un momento bellissimo perché la cosa peggiore che succede agli adulti è proprio questa: smettono di credere a tutto, col risultato che non hanno più speranza per niente. Quindi, caro Babbo Natale, che lassù da qualche parte mi senti, quest’anno vienimi ad abbracciare e dimmi che andrà tutto bene, che il 2016 sarà un anno spaziale per me anche se non è vero, che le persone che mi vogliono bene davvero ci saranno sempre per me, che tutte le brutte cose non contano; quest’anno, Babbo Natale, riportami la magia.

 


( Per chi volesse stampe belle come le mie per fare alberi di Natale alternativi: Sticky9 )

Un nuovo bel film di Woody Allen

Sono stata all’anteprima di Irrational Man e mi sono innamorata. Questa è una piccola magia che si verifica ogni qual volta vedo un film di Woody Allen, sì pure quelli brutti che non vi sono piaciuti. So bene che è un regista molto particolare, credo che come tutti i grandi geni o lo si ami o lo si odi e io sono palesemente nella fazione di coloro che lo venerano profondamente.

Il bello dei film di Woody Allen è che non sono mai fine a se stessi, sono sempre volti a far interrogare lo spettatore su temi su cui a volte ci soffermiamo troppo poco a pensare. Irrational man non fa differenza, mi è piaciuto proprio perché riprende tutte quelle tematiche molto care a Woody e di cui non si parla mai abbastanza. Personalmente quella che mi affascina più di tutte, e che lui affronta sempre in modo clamoroso, è quella del caso. In un’intervista al regista su quest’ultimo film lui afferma: “Tutti noi viviamo soggetti a una fragile contingenza di vita. Sapete, serve soltanto una svolta sbagliata per strada…” e la verità è che proprio così: le decisioni le prendiamo noi, siamo noi che scegliamo ma poi è il caso, il fato, la tyche che decide cosa ci accade. La cosa assurda è che nessuno può prevederlo o farci assolutamente, il caso decide e se decide che è arrivato il tuo momento anche comprare la spremuta d’arancia che ti compri ogni mattina nello stesso posto può esserti fatale.

So che sono tutti presi dal grande “risveglio della forza oscura” ma confondete le carte al fato e fatevi un regalo: andate a vedere un bel film di Woody Allen, di quelli con i dialoghi strafighi che potete riutilizzare come status su FB, di quelli che vi fanno riflettere su che cosa è giusto o sbagliato e che vi fanno domandare “qual è il mio scopo nella vita?”; andate a vedere Irrational man.

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